Secondo l’orientamento indicato nel provvedimento in commento, è legittimo il licenziamento basato sull’esito di un’attività investigativa, oggetto questa anche di prova testimoniale degli investigatori, poiché rientrante nei poteri di controllo datoriale, in quanto poi esercitata in luoghi pubblici, visto che è stato accertato (per 10 giorni) non solo il mancato rispetto dell’orario giornaliero di lavoro ma anche che, in orario di lavoro, al di fuori dell’ufficio, il dipendente non aveva svolto alcuna attività lavorativa. Nella fattispecie, la Corte di Appello di Roma aveva confermato la pronuncia del 2014 emessa dal Tribunale di Roma con la quale era stata respinta la domanda proposta al fine di ottenere l’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimato al lavoratore nel 2011 e il suo annullamento, con conseguente reintegrazione nel posto di lavoro e condanna della società al risarcimento del danno, in misura pari alle mensilità di retribuzione maturate dalla data del ricorso fino alla data di riammissione in servizio. A fondamento del decisum la Corte territoriale ha rilevato che:
1) la contestazione disciplinare, intervenuta dopo 45 giorni, era tempestiva avendo riguardo alla data della effettiva e certa conoscenza dei fatti, al periodo feriale intercorso e alla complessità della organizzazione aziendale;
2) la sanzione irrogata era proporzionata rispetto ai fatti contestati;
3) riguardo alla problematica sulla illegittimità dei controlli svolti dalla agenzia investigativa, in violazione degli artt. 2, 3, e 4 legge n. 300/1970, si trattava di una questione nuova perché prospettata per la prima volta in appello e, comunque, infondata perché l’attività investigativa era finalizzata non all’accertamento delle modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì alla verifica se il dipendente si fosse assentato, senza giustificato motivo o permesso dal luogo di lavoro.
Avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma il lavoratore ha proposto ricorso, affidandolo a sette motivi, tutti ritenuti inammissibili o infondati. Ne consegue che il ricorso è stato rigettato. Sui punti controversi la Suprema Corte precisa che l’attività svolta dal lavoratore ricorrente si svolgeva non solo nei locali dell’azienda, ma anche esternamente e che era tenuto al rispetto dell’orario di lavoro di 37 ore settimanali e che doveva attestare la propria presenza al lavoro con un’unica timbratura giornaliera del badge, effettuabile nell’arco della giornata, abitualmente all’uscita del lavoro.
Orbene, la disposizione dell’art. 2 dello Statuto dei lavoratori, nel limitare la sfera di intervento di persone preposte dal datore di lavoro a tutela del patrimonio aziendale, non precludono a quest’ultimo di ricorrere ad agenzie investigative, purché queste:
– non sconfinino nella vigilanza dell’attività lavorativa vera e propria riservata dall’art. 3 dello Statuto direttamente al datore di lavoro e ai suoi collaboratori;
– giustifichino l’intervento in questione non solo per l’avvenuta prospettazione di illeciti e per l’esigenza di verificarne il contenuto, ma anche in ragione del solo sospetto o della mera ipotesi che detti illeciti siano in corso di esecuzione (cfr. Corte di Cassazione, 14.2.2011 n. 3590);
– inoltre, il suddetto intervento deve limitarsi agli atti illeciti del lavoratore non riconducibili al mero adempimento dell’obbligazione (Corte di Cassazione, 7.6.2003 n. 9167). Le garanzie degli artt. 2 e 3 citati operano, infatti, esclusivamente con riferimento all’esecuzione della attività lavorativa in senso stretto, non estendendosi, invece, agli eventuali comportamenti illeciti commessi dal lavoratore in occasione dello svolgimento della prestazione che possono essere liberamente accertati dal personale di vigilanza o da terzi.
Deve, pertanto, ritenersi corretto il riferimento dei giudici di seconde cure al fatto che, nel caso in esame, il controllo non era diretto a verificare le modalità di adempimento dell’obbligazione lavorativa, bensì le cause dell’assenza del dipendente dal luogo di lavoro, concernenti appunto il mancato svolgimento dell’attività lavorativa da compiersi anche all’esterno della struttura aziendale. La ritenuta liceità del controllo rende, altresì, prive di fondamento le doglianze sulla violazione degli artt. 2104 e 2106 c.c. perché il potere dell’imprenditore di controllare direttamente o indirettamente l’adempimento delle prestazioni lavorative, nei limiti sopra evidenziati, non è escluso dalle modalità di controllo che può legittimamente avvenire anche occultamente, senza che vi ostino né il principio di correttezza e buona fede nell’esecuzione dei rapporti, né il divieto di cui all’art. 4 della Legge n. 300/1970 riferito esclusivamente all’uso di apparecchiature per il controllo a distanza (cfr. Corte di Cassazione, 10.7.2009 n. 16196).